L’Employer Branding? Il lato marketing che ogni professionista HR dovrebbe avere

Caratterizzata da un crescente divario di competenze e dalla rapidità della trasformazione digitale in corso, la ricerca dei migliori professionisti in circolazione promette di non essere mai stata faccenda più complessa di così.

Ad intralciare poi ulteriormente il compito degli esperti in attraction, ci ha pensato negli ultimi tempi anche il lieve ma sistematico irrobustimento del mercato del lavoro europeo. Nel quale si osserva, in linea col dato mondiale, un incremento delle posizioni vacanti abbastanza significativo.

Con premesse simili, sono in molti gli esperti a convergere sulla tesi per cui, dietro ogni debole strategia di attraction, ci sia il più comune degli errori commesso dalle imprese: ritenere che la sfida col talento concerna solo le divisioni HR.

Il dubbio, insomma, è che molte organizzazioni stiano ancora sottovalutando l’impatto che una robusta campagna di Employer Branding eserciti sulla capacità di attrarre talenti.

Ma cosa spinge gli analisti a questa conclusione? Diversi aspetti. Uno, in particolare, più degli altri: gli investimenti. Il solo strumento in grado di misurare l’effettiva corrispondenza tra la capacità di un’impresa di riconoscere i propri limiti, e la sua volontà di superarli.

Privare il proprio dipartimento HR delle risorse necessarie per lo sviluppo e il mantenimento di una robusta politica di employer branding è, infatti, il tratto più riconoscibile della miopia a cui si attribuisce l’insuccesso di molte strategie di attraction. E questo perché equivale a trascurare la portata del cambiamento che si sta producendo nel mondo del recruiting. Ignorare cioè cosa significhi per un’impresa essere attrattivi oggi.

I migliori talenti presenti sul mercato del lavoro, in particolare i Millennial e a breve anche i rappresentanti della Generazione Z, cercano opportunità professionali in grado di offrire qualcosa in più che un semplice stipendio. E, per quanto strano possa apparire, c’è chi è disposto a mettersi al loro ascolto. Non solo. Ma all’occorrenza, pure ad accontentarli.

Casi di successo non mancano tra le imprese che hanno imparato a tradurre in azioni i segnali prodotti dal mercato del lavoro. Col risultato di finire per edificare l’employer branding a misura delle sue esigenze (quelle del mercato). A tenere uniti tutti questi casi è proprio il dato che avvalora le perplessità degli analisti. Come emerso anche dallo studio sull’Employer Brand condotto da Randstad coinvolgendo professionisti HR di oltre 30 paesi del mondo, le migliori strategie di attraction sono quelle che hanno alla base un employer branding gestito in comunione dai team HR e Marketing.

Un esempio per tutti: il caso Virgin Group. Cosa fanno da quelle parti di tanto straordinario? In ordine sparso: flessibilità; salari competitivi; sviluppo di una forte identità etica che passi per il sostegno alle cause ambientali e per la promozione di uno stile di vita in linea con quello dei propri clienti; premi e incentivi al raggiungimento degli obiettivi; politiche di adesione ai valori aziendali; precisi piani di sviluppo di carriera; azzeramento della disparità di genere; inclusione, e ogni altro elemento in grado di trasmettere un’esperienza professionale che vada al di là del solo fattore economico.

Come si può anche solo pensare che aspetti come questi possano essere affidati alle cure, e quindi alle risorse, di un’unica divisione aziendale?